Cosa sappiamo della visita di Meloni
Sarà in Cina dal 28 al 31 luglio, ma cosa porterà a casa?
C’è uno spettro che si aggira nelle stanze che ospiteranno i bilaterali della premier Giorgia Meloni con le massime cariche della Repubblica popolare cinese, è “lo spirito della via della seta”.
La diplomazia cinese vorrebbe che questa formula venisse inserita nel Piano d’azione per il rafforzamento del Partenariato strategico globale 2024-2026, il documento più importante che potrebbe essere siglato durante questa missione, mentre quella italiana - che si fregia di aver disdetto il memorandum d’intesa sulla Belt and Road Initiative senza incorrere nelle ritorsioni commerciali cinesi - auspicherebbe che, se proprio non se ne può fare a meno, venisse inquadrato in una prospettiva storica. Ma la portavoce del ministero degli affari esteri cinesi Mao Ning rispondendo a una domanda di un giornalista del Beijing Daily sembra escluderlo quando nella quotidiana conferenza stampa afferma che: “Quest’anno è segnato dal ventesimo anniversario del Partenariato strategico globale tra Cina e Italia. La Cina vuole lavorare con l’Italia e usare questa visita per cementare la tradizionale amicizia, promuovere lo spirito della via della seta (…) e contribuire assieme a un mondo più stabile, pacifico e ricco”. Vedremo chi vincerà questo braccio di ferro.
Nella stessa comunicazione notiamo che Meloni è in visita ufficiale “su invito del premier Li Qiang”. Ma secondo Palazzo Chigi era stato Xi Jinping in persona che l’aveva invitata nel primo e unico incontro che avevano avuto a margine del G20 di Bali: “al termine dell’incontro il Presidente Xi ha invitato il Presidente del Consiglio a effettuare una visita in Cina, che il Presidente Meloni ha accettato”. Era il 16 novembre 2022. Da allora la premier non ha fatto altro che confermare l’invito e rimandare la missione (a luglio scorso, da Washington, affermava di essere stata invitava “più volte”). Nel frattempo sono cambiate molte cose. L’Italia è uscita dalla Via della Seta in punta di piedi e ha rilanciato il parternariato strategico voluto da Silvio Berlusconi vent’anni fa. Nell’anno della sua presidenza G7 si è fatta alfiere degli interessi atlantici, anche nell’indopacifico. Tanto è vero che per la prima volta sta conducendo una serie di esercitazioni militari nell’area che il prossimo 2 agosto, ovvero appena due giorni dopo che la premier avrà lasciato l’estremo oriente, terranno in Giappone con tutti e cinquecento i militari e i mezzi italiani coinvolti. Non esattamente il modo migliore per ingraziarsi la diplomazia cinese.
L’esito più atteso, e il più difficile da raggiungere, rimane comunque quello di portare un’azienda cinese a produrre veicoli elettrici in Italia. In questo senso è interessante porre l’accento sulla visita del ministro delle imprese e del Made in Italy a inizio luglio. Adolfo Urso aveva incontrato il presidente della CCIG (gruppo industriale China City, produttore di autobus) Gu Gifeng, il presidente di Chery Automobile, Yin Tongyue e alcuni alti quadri di Dongfeng, Jac (produttori di auto elettriche come Chery), Weichai (motori), Mingyang (energie rinnovabili). Stando al Sole 24 Ore, ci sarebbero colloqui in fase avanzata in particolare con il gruppo CCIG candidato ad investire insieme a Seri e Invitalia nel settore italiano degli autobus di Flumeri. Il quotidiano economico, a pochi giorni dal rientro del ministro, aveva posto l’accento anche su una manovra del governo per acquisire i diritti su due marchi storici inutilizzati (Autobianchi e Innocenti, ancora di proprietà Stellantis) per poi cederli a un gruppo (cinese? ipotizza il Sole) pronto a investire nella produzione in Italia.
Un ultima nota, è quella evidenziata da Giulia Pompili su Il Foglio. La delegazione di palazzo Chigi in partenza per Pechino lascerà smartphone, tablet, orologi intelligenti e gli altri device elettronici di uso quotidiano in Italia. Per la prima volta - la missione del ministro Urso appena un mese fa non aveva usato questi accorgimenti - gli italiani useranno i cosiddetti burner phone, telefoni usa e getta che non contengono uno storico di comunicazioni e non verranno più utilizzati una volta usciti dal territorio cinese. Ecco, come scrive Pompili, “è difficile pensare di rilanciare i rapporti con un paese in cui non ti fidi nemmeno a portarti dietro il tuo cellulare”.