Ideologia imperiale e disordine mondiale
La pace professata dalla Repubblica popolare non esiste. Anzi, non è mai esistita
«Quanto a pace e sicurezza, la Cina vanta il miglior record tra le nazioni di rilievo: noi non abbiamo mai invaso altre nazioni né preso parte a conflitti, tantomeno abbiamo cercato di stabilire sfere d’influenza o partecipato a scontri tra schieramenti militari». Con queste poche ma incisive parole, nel febbraio 2022, nel corso di una conferenza incentrata sull’invasione russa dell’Ucraina, l’allora ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha propagandato uno dei luoghi comuni maggiormente radicati nell’immaginario collettivo dei cinesi e del resto del mondo. Questa affermazione autocelebrativa, incentrata sulla rivendicazione di una differenza, ha come riferimento inespresso e termine di paragone le potenze imperialiste e coloniali in declino. Non meraviglia quindi che simili dichiarazioni abbiano una certa presa tra gli stati del Sud globale, in gran parte anch’essi reduci da un passato colonialista e oggi strattonati da una parte e dall’altra da chi fa intravedere loro interessanti opportunità.
L’affermazione di Wang Yi, composta di due proposizioni, è costruita ad arte. Passando dalla prima frase alla seconda il soggetto cambia: nella prima frase il soggetto è «la Cina», nella seconda è «noi». Quel noi a chi si riferisce? Ai governi della Repubblica popolare cinese, equivarrebbe cioè a «noi comunisti», oppure ai governi di ogni epoca, equivalendo allora a un generico «noi cinesi», o a «noi comunisti cinesi»? Nel primo caso il legame con la tradizione pacifista è debole, nel secondo è invece forte, nel terzo diventa inequivocabile, e il messaggio viene recepito come dato di realtà. In nessun caso il messaggio è credibile. Se è al periodo comunista che Wang Yi intende riferirsi, non si possono ignorare la guerra sino-vietnamita del 1979 o le dispute territoriali ai confini con l’India iniziate negli anni Sessanta e ancor oggi oggetto di forti tensioni. La Repubblica popolare cinese rivendica da sempre le acque prospicenti le sue coste e, in contrasto con quanto stabilito dal diritto internazionale, nega la sovranità di altri paesi su atolli e isolette che ha occupato e militarizzato. Compie continue «esercitazioni militari» congiunte con le forze armate russe, e ora anche sudafricane, e le dimostrazioni di forza nei confronti di Taiwan si fanno sempre più minacciose.
Quel noi a chi si riferisce? A «noi comunisti», a «noi cinesi»,
o a «noi comunisti cinesi»? In nessun caso il messaggio è credibile
Si tratta di poca cosa, si potrebbe obiettare, se paragoniamo tali iniziative all’attivismo di eserciti come quello americano e russo. Cionondimeno non possiamo sottovalutare il nuovo ruolo assunto in questi anni dall’Esercito popolare di liberazione, senza rivali nell’area dell’Indo-Pacifico e il più grande del mondo con circa due milioni di uomini in armi, dalla marina militare e dalle forze aeronautiche, tra le più tecnologicamente avanzate essendo dotate di modelli di nuova generazione che compongono più della metà delle flotte navale e aerea da combattimento. Né va ignorata la grande disponibilità di missili, anche subsonici, di velivoli da combattimento stealth, di bombardieri in grado di venire armati con ordigni atomici, di navi avanzate, di sottomarini a propulsione nucleare; viene stimato che l’arsenale nucleare, in continuo e rapido aumento, consista attualmente in 410 testate. Il budget per la difesa è in costante crescita per l’ottavo anno consecutivo ed è secondo solo a quello, stratosferico, degli Stati Uniti. La distanza che separa l’esercito cinese da quello americano, di gran lunga il più potente e avanzato, va gradualmente riducendosi, e sono in molti a ritenere, anche in Cina, che la questione di Taiwan sarà affrontata non appena il governo cinese riterrà di essere all’altezza della potenza militare americana.
La distanza che separa l’esercito cinese da quello americano,
di gran lunga il più potente e avanzato, va gradualmente riducendosi
Tutto ciò riporta la mente al «sogno cinese» del colonnello dell’esercito Liu Mingfu, convinto assertore dell’inevitabilità della guerra contro gli Stati Uniti. A suo parere la contesa si concluderà con la vittoria della Cina, il problema non è se, ma quando ciò avverrà. Secondo Michael Pillsbury, è ispirandosi a quel libro di grande successo che Xi Jinping formulò la sua dottrina del sogno cinese, probabilmente convinto che l’opzione militare sarebbe stata l’inevitabile epilogo della lunga «maratona» iniziata con il «secolo della vergogna e della umiliazione nazionale». Nella versione in lingua inglese del volume del colonnello Liu, pubblicato qualche anno più tardi, i toni vennero sfumati e gli argomenti edulcorati, secondo Pillsbury, per non svelare al pubblico straniero l’esistenza di un progetto di vecchia data che aveva come obiettivo finale la sconfitta degli Stati Uniti, da ritenersi «il maggior contributo della Cina al progresso dell’umanità».
L’opzione militare sarebbe stata l’inevitabile epilogo della lunga «maratona» iniziata con il «secolo della vergogna e della umiliazione nazionale»
Se invece è a «noi cinesi» o a «noi comunisti cinesi» che Wang Yi intendeva riferirsi, allora la sua affermazione è ancor più inattendibile. La storia dell’Estremo Oriente, infatti, non è una storia di pace, tutt’altro: quel passaggio da un soggetto all’altro, da «Cina» a «noi», è subdolo perché induce a pensare, quanto meno a livello subliminale, che è per tradizione che «noi comunisti cinesi» amiamo la pace (è dunque nel nostro DNA), tant’è che «non abbiamo mai invaso altre nazioni...» (questo ci rende superiori), quindi siamo detentori di un primato, affermiamo la peculiarità del nostro popolo, delle nostre istituzioni, del Partito comunista, della nostra storia. I cinesi fin da bambini sentono ripetere queste affermazioni, le studiano a scuola, da adulti le ascoltano in innumerevoli occasioni e contesti diversi. Persino gli stranieri che si avvicinano alla Cina tendono ad assimilarli come dati scontati, tratti distintivi derivanti dal confucianesimo. In effetti i confuciani hanno professato da sempre i valori della pace, dell’armonia e della stabilità sociale e della guerra giusta, come peraltro li affermano i leader comunisti.
Idee simili a quelle di Wang Yi sono ripetute in continuazione in tutti i discorsi pubblici (sono uno dei leitmotive di Xi Jinping) e si ritrovano nei libri e negli articoli di storia cinese anche all’estero. Le affermazioni sulla pace enunciate da Xi in occasione delle celebrazioni dell’anniversario della nascita di Confucio riportate nella «Introduzione» sono strutturate esattamente come quella di Wang Yi. «Le idee pacifiste sono connaturate nel mondo spirituale della nazione cinese, e costituiscono ancora oggi la filosofia di base nel gestire le relazioni internazionali»: il primo enunciato serve come presupposto probatorio del secondo, il vero messaggio che si intende veicolare. Importante è dunque dare per scontato il primo enunciato e, automaticamente, viene convalidato il secondo.
«La pace è importante per l’umanità quanto la luce del sole e l’aria; senza luce del sole e aria, nulla può sopravvivere e crescere», continua Xi. Ne consegue che «La Cina ha bisogno della pace, ama la pace e desidera fare del suo meglio per mantenere la pace nel mondo e aiutare sinceramente chi sta ancora soffrendo per la guerra e la povertà». L’asserzione suona semplice ed efficace. Una volta recepito, c’è il rischio che il messaggio venga divulgato in modo acritico, dandone per scontata l’attendibilità, come spesso accade con i luoghi comuni; contribuiscono ad accrescerne l’autorevolezza anche coloro che non sono «comunisti», non sono «cinesi» e meno ancora sono «comunisti cinesi», semplicemente perché lo hanno sentito e letto in numerosi contesti e lo ripetono a loro volta divulgandolo da un pulpito non «schierato». Viene sfruttato un meccanismo psicologico sottile ed estremamente efficace, che opera a livello subliminale; Clive Hamilton e Mareike Ohlberg hanno coniato il termine «soft power subliminale» per definirlo.