Il cuore rotto di Li Keqiang
Il cordoglio per l’improvvisa morte dell’ex premier nasconde sentimenti politici più profondi
C'è chi lo ricorda per il suo sorriso, chi per la sua franchezza, chi per tutto quello che non ha fatto. Li Keqiang, fino a marzo scorso la seconda carica della Repubblica popolare, se ne è andato improvvisamente la notte tra il 26 e il 27 ottobre. Xinhua, l'agenzia di stampa controllata dal Partito, ne ha dato notizia il 27 mattina con uno scarno comunicato: un infarto lo ha colto nella notte a Shanghai, tutti gli sforzi per rianimarlo sono stati vani. Il necrologio ufficiale, apparso solo 18 ore dopo, lo definisce “un fedele soldato comunista”.
Bandiere a mezz’asta il 2 novembre, giorno in cui Li Keqiang è stato cremato. Durante la cerimonia funebre, Xi Jinping si è inchinato tre volte davanti al suo feretro. Accanto a lui, sua moglie Peng Liyuan; dietro di lui l’intero ufficio politico del partito. Un’assenza però, pesa più delle presenze. L’ex presidente Hu Jintao non si è visto, avrebbe semplicemente mandato dei fiori. L’ultima volta che si è mostrato in pubblico è stato in occasione del ventesimo Congresso comunista ad ottobre scorso, quando è stato allontanato dall’aula in mondovisione, poco prima che venissero ufficializzati i nomi che formano l’attuale politburo.
“Non leggere, è stato già deciso tutto”, gli avrebbe detto in quell’occasione Li Zhanshu il numero tre del comitato permanente dell’epoca seduto alla sua sinistra, prima che lo scortassero fuori dall’aula. Il momento era solenne, il vertice di quella complessa piramide dove stato e partito si sovrappongono per governare su un miliardo e quattrocento milioni di individui era seduto ordinatamente. Nessuno poteva aspettarsi un colpo di scena di tali proporzioni, specie in uno dei rari momenti politici della seconda economia mondiale a cui hanno accesso i giornalisti.
Hu Jintao, che stava per compiere ottant’anni, era seduto alla sinistra del suo successore, Xi Jinping. Un uomo dello staff lo invita ad alzarsi, ma lui sembra resistere. Cerca di portare con sé i fogli su cui, presumibilmente, sono indicati i nomi attualmente al vertice del Partito e dello Stato. L'attuale presidente lo blocca discretamente con una mano. Sono in due ora a cercare di portarlo via. Passa alle spalle di Xi Jinping e prova a dirgli qualcosa a cui l’attuale presidente risponde con un sorriso di circostanza, poi poggia una mano sulla spalla del suo protetto, l’allora premier Li Keqiang e prosegue, scortato, alle spalle degli uomini più importanti del paese per scomparire, forse per sempre, dai riflettori. La scena dura più di un minuto, un lunghissimo minuto in cui nessun fa nulla. Tutti immobili, occhi bassi.
Avremmo saputo solo in seguito che sulla lista sfilata dalle mani di Hu Jintao non c’era nessun nome che faceva capo alla sua fazione, la stessa di Li Keqiang, quella della Lega della gioventù comunista, ovvero di chi aveva scalato il Partito senza poter vantare importanti natali, cioè senza appartenere a quella nobiltà rossa di cui l’attuale presidente è l’esempio più celebre. Hu faceva parte di quella generazione che cercava di mettere una pietra sopra ai personalismi e alle purghe del periodo maoista. Quelli che offrivano al proprio popolo un costante miglioramento dei livelli materiali di vita in cambio della stabilità politica. Quelli del comunismo sì, ma con caratteristiche cinesi. L’importante è che il paese cresca, che “il gatto prenda i topi”, per usare le parole dell’architetto della nuova Cina Deng Xiaoping. Quello che anche Li Keqiang è tornato ad omaggiare in una delle sue rare uscite pubbliche da quando, a marzo scorso, si è ritirato a vita privata. Li Keqiang poteva diventare presidente al posto di Xi Jinping, se nello scontro tra fazioni non si fosse imposta quella dei “principi rossi”. Era stato poi scelto come premier proprio per controbilanciarne il potere. Aveva sacrificato l’orgoglio per il Partito, ma dal Partito si era sentito tradito.
Dal giorno della sua morte, migliaia di persone si sono recate di fronte alla sua casa natale, nella regione dell'Anhui per rendergli omaggio con mazzi di fiori e brevi messaggi. Sui social la vicenda è stata più complicata. Inizialmente è diventata virale una canzone di Liang Jinru: Kexi bu shi ni, peccato non sia tu. I censori ci hanno messo poco a capire il riferimento, neppure troppo velato, al presidente Xi Jinping e a farla scomparire. È invece continuato a rimbalzare da uno smartphone all’altro per qualche ora in più il suo ultimo commento politico pubblico: la Cina non tornerà indietro nelle politiche di riforme e aperture, proprio come “il fiume Giallo e quello Azzurro non possono scorrere al contrario”. Si era dimesso, senza ottenere nessun altro ruolo di responsabilità, tenendo fede alla regola non scritta che per decenni, fino all'avvento di Xi Jinping, ha governato l’avvicendarsi della classe dirigente cinese: a 68 anni non si prende un altro incarico. In quell’occasione si era guadagnato 37 secondi di applausi.
Era piaciuto anche per come si era fatto carico degli effetti economici disastrosi della pandemia. Quando aveva cercato di ridare entusiasmo ai piccoli imprenditori con la cosiddetta economia delle bancarelle e quando era apparso senza mascherina prima che le politiche di azzeramento del covid fossero cancellate da un giorno all’altro lo scorso dicembre. I più informati se lo ricordano anche per quella frase del 2007 uscita qualche anno dopo grazie ai cablogrammi di Wikileaks pronunciata di fronte all’allora ambasciatore statunitense Clark Randt: “i dati del pil sono prodotti dagli uomini e, in quanto tali, sono inattendibili”. All’epoca era segretario del Partito della regione del Liaoning e spiegava che lui stesso, per capire l’andamento dell’economia della propria regione, si affidava ai dati del consumo di elettricità, del volume del carico ferroviario e dei prestiti bancari. Quello che più tardi avrebbe preso il suo nome e sarebbe stato usato dall’Economist per valutare l’andamento reale della seconda economia mondiale: l’indice di Li Keqiang.
Molti però gli rimproverano di aver troppo facilmente ceduto le sue funzioni al potere accentratore di Xi Jinping. C’era un tempo in cui era il premier della Repubblica popolare a dettare l’agenda economica del Paese e a mantenere il rapporto “emotivo” con la popolazione (ricordiamo le famose lacrime di Wen Jiabao, il suo predecessore). Li è stato forse il premier meno commentato di tutti i 75 anni della Repubblica popolare e, secondo alcuni, la sua predisposizione al compromesso avrebbe permesso a Xi Jinping di rimodellare la politica cinese intorno all’uomo solo al comando. Certo, non possiamo sapere cosa sarebbe successo se si fosse imposto o se avesse denunciato pubblicamente che con l’attuale presidente la fedeltà era tornata ad essere valutata più del merito e che ormai il nazionalismo e l’ideologia venivano prima dell’economia. Ma oggi possiamo dire che questo silenzio non è stato indolore. A marzo scorso, mentre la struttura politica della Repubblica popolare veniva definitivamente ridisegnata sui desiderata del presidente, la modernità che immaginava per la sua Cina è stata completamente spazzata via assieme agli uomini che aveva preparato per guidarla. E il suo cuore non ha retto. Chi oggi lo piange, piange una Repubblica popolare che cercava di trasformarsi in uno stato di diritto.