Il senso di Pechino per la Palestina
“Il mondo vuole giustizia, non egemonia”. Ma lontano dalla sua sfera di influenza
Israele è stato il primo stato mediorientale a riconoscere la Repubblica popolare cinese, un anno dopo la sua fondazione nel 1950, e l’ultimo ad instaurarci relazioni diplomatiche, nel 1992. Da allora Pechino si è sempre dichiarata a favore della soluzione “due popoli e due stati” offrendosi a più riprese come mediatrice di pace. Nel frattempo le relazioni economiche e tecnologiche con Israele si sono intensificate e Tel Aviv si è assicurata di essere uno snodo fondamentale della Nuova via della Seta senza firmare nessun memorandum sul tema, ma solo specifici accordi commerciali. Nel 2020 c’erano oltre ottomila lavoratori cinesi sul territorio israeliano e nel 2021 la Repubblica popolare è diventata il suo terzo partner commerciale, superando perfino gli Stati Uniti per volume di esportazioni nel Paese. Nel 2022, addirittura, Tel Aviv ha aggiunto la moneta cinese a quelle delle riserve della sua banca centrale. Ma gli affari sono affari. La politica è un’altra.
Oggi, quando condanna “tutte le violenze e gli attacchi ai civili”, Pechino non nomina direttamente Hamas e lascia i difensori della causa palestinese liberi di scatenarsi sui social in chiave antisemita. L’account weibo della televisione di stato getta benzina sul fuoco rilanciando, senza mai citare la fonte, la base di molte teorie del complotto che dalla crisi finanziaria degli Stati Uniti popolano il web cinese: “gli ebrei sono appena il tre per cento della popolazione statunitense ma controllano più del 70 per cento della ricchezza americana”. Il solo fatto che questo tipo di commenti sull’attualità non siano stati censurati, ha fatto pensare a molti che il governo fosse dalla loro parte. Un utente l’ha scritto, e il suo commento è stato rimosso.
Pechino non ha mai smesso di appoggiare la causa palestinese. Ha nominato il suo inviato speciale in medio oriente alla fine del 2002 e ha chiesto il ritorno ai confini del 1967 con capitale Gerusalemme est nel 1989, nel 2004, nel 2007 e nel 2013; ma non è mai stata particolarmente generosa dal punto di vista degli aiuti umanitari o degli investimenti. Negli ultimi anni sembrava quasi che lo sbandierato appoggio politico servisse esclusivamente a garantirsi le simpatie dei paesi arabo musulmani nei consessi internazionalli e il loro silenzio sulla questione uigura. Questo fino a marzo scorso, quando ha strappato l’accordo tra Iran e Arabia saudita. Così ha cominciato ad acquistare credito anche in quest’area geografica, e oggi la situazione è differente.
L’aperta rivalità con gli Stati Uniti rinvigorisce le teorie del fondatore della nazione Mao Zedong. Come all’epoca, la causa palestinese è perfetta da sposare sia da un punto di vista ideologico che di alleanze geopolitiche. La volontà di fare fronte unico contro quello che un tempo era l’imperialismo occidentale si è trasformata nel contrasto dell’ordine globale costruito dagli Stati Uniti. Le parole con cui da tempo Xi Jinping cerca la solidarietà degli stati che faticano a trovare il loro posto nello scacchiere disegnato alla fine della guerra fredda, sono valide più che mai in questo contesto. Lo slogan “il mondo vuole giustizia, non egemonia” funziona bene. Soprattutto se la sua eco arriva lontano dalla sua sfera di influenza.