L'altra forma di genocidio
Incarcerazioni e sterilizzazioni forzate. La popolazione uigura dello Xinjiang sta scomparendo
È con colpevole ritardo che leggo il memoir di Gulbahar Haitiwaji (Sopravvissuta a un gulag cinese, edizioni add 2021), uigura auto-esiliata in Francia che ha trascorso i tre anni che vanno dal 2016 al 2019 in un campo di rieducazione. Mi è tornato in mente quando ho letto che ormai anche l’ultima delle grandi moschee è stata “sinificata”: sparite le cupole, l’edificio e i suoi quattro minareti sono stati sostituiti dai più caratteristici tetti a pagoda. Si trova al sud, in tutt’altra zona geografica, ma mi ha ricordato com’era lo Xinjiang quando l’ho visitato nell’estate del 2001: un polveroso pezzo di Asia centrale difficilissimo da raggiungere (da Pechino tre giorni di treno, più tre giorni di sleeping bus) ma capace di di stupire con le sue variopinte architetture di legno e terra cruda, i suoi mercati affollati, gli antichissimi reperti archeologici che narrano di una civiltà del bronzo indoeuropea di cui Pechino non vuol sentir ragioni, le oasi, i deserti e le sue immense distanze. Dopo sei mesi nella metropoli di Tianjin, quella “non Cina” mi aveva riconciliata con la Cina. Ecco, oggi tutto quello che ho visto non esiste più.
Gli uiguri sono la minoranza turcofona e di religione musulmana che abita lo Xinjiang, la regione più occidentale della Repubblica popolare cinese. A oltre tremila chilometri da Pechino, è un territorio desertico ricco di risorse naturali storicamente conteso tra popolazioni nomadi e sedentarie tanto da meritarsi l’epiteto di Far west cinese. Quando Mao lo ri-conquistò nel 1949, gli han, l’etnia dominante in Cina, non erano neanche il 7 per cento della popolazione. Oggi sono più del 40 per cento. Finalmente un rapporto dell'Onu del 2022 accusa la Cina di “importanti violazioni dei diritti umani” e asserisce che la detenzione “arbitraria e discriminatoria” delle minoranze musulmane potrebbe configurarsi come crimine contro l'umanità. La diaspora uigura conta tra il milione e il milione e mezzo di persone.
“Non mi va di tornare a casa”, mi aveva confessato nel 2015 un amico uiguro ormai perfettamente integrato nella realtà pechinese, “dovrei tagliarmi la barba”. Fuma, beve e mangia carne di maiale da anni, ma non può sopportare i divieti pretestuosi che sono imposti ai suoi familiari e amici. La sua barba è la manifestazione visibile della solidarietà con chi, vivendo nello Xinjiang, non può portarla. A Pechino gli è concessa la barba e, se volesse, potrebbe praticare il Ramadan. Ma ormai nella sua regione d’origine a maggioranza musulmana ci sono regolamenti che vietano il velo e le barbe lunghe. Addirittura alcuni negozi sono stati costretti a vendere alcolici e sigarette e in una provincia nel sud della regione autonoma è stata organizzata una festa della birra. Inoltre gli uiguri possono compiere l’haji, il pellegrinaggio alla Mecca, uno dei cinque pilastri dell’islam, solo con viaggi organizzati dallo stato e i minori di 18 anni hanno il divieto di entrare nelle moschee. Poiché anche le madrase sono bandite, i genitori sono costretti a insegnare il Corano ai propri figli di nascosto. Tutte imposizioni vissute come provocazioni e digerite con difficoltà perché abdicare alla propria religione significa negare le proprie radici storiche e culturali.
È così che la resistenza culturale si è trasformata in guerriglia. Dagli scontri tra han e uiguri del luglio del 2009 a Urumqi, il capoluogo della regione, dove 197 persone rimasero uccise e 1.600 furono ferite, si contano più di mille vittime. E, considerando il black out di informazioni che da allora ha colpito la regione, probabilmente sono molte di più. Gli uiguri, esasperati, hanno reagito ai divieti e alle restrizioni con le armi (coltelli e bombe artigianali), Pechino fa arresti a tappeto, distrugge moschee e reprime con il pugno di ferro e condanne esemplari. E, soprattutto, rieduca. Di fatto ha trasformato la regione in uno stato di polizia.
Gli ultimi, inquietanti, dettagli sulla repressione nei confronti della minoranza uigura dello Xinjiang - i cosiddetti Xinjiang Police Files - raccolgono materiale hackerato dai server della polizia locale da una persona che comprensibilmente ha scelto di rimanere anonima. Adrian Zenz, antropologo della Victims of Communism Memorial Foundation, ha studiato, autenticato e reso pubblici quei documenti e ha formalizzato le sue conclusioni in un articolo pubblicato sul Journal of the European Association for Chinese Studies. Il ricercatore tedesco, che dello studio degli abusi sulla popolazione uigura ha fatto il suo campo di studi presso il sopracitato think tank di Washington, spiega come le migliaia di immagini raccolte, dimostrerebbero che tra il 2017 e il 2018 più del 12 per cento della popolazione adulta della minoranza musulmana era detenuto in scuole vocazionali che, secondo analisti ed esuli uiguri, differiscono dai campi di rieducazione che la storia cinese ci ha insegnato a conoscere solo per il nome.
I documenti interni raccolti, poi, espliciterebbero la politica di trattarli come pericolosi criminali tanto che in un punto si spiega candidamente che “se dopo un colpo di avvertimento lo 'studente' non si ferma continua a fuggire, il poliziotto armato dovrà sparare per uccidere”. Inoltre, la trascrizione del discorso tenuto il 15 giugno 2018 dall'allora ministro della pubblica sicurezza Zhao Kezhi ed etichettato come “documento classificato”, proverebbe come le stime che riferiscono di uno-due milioni di uiguri internati in quegli anni potrebbero essere più che verosimili e, soprattutto, come lo stesso presidente Xi Jinping fosse informato delle campagne di “rieducazione”, per “colpire alle radici” e “de-estremizzare” gli uiguri, nonché delle spese sempre maggiori per le strutture carcerarie nella regione e per il loro personale di sicurezza.
Quando l'Alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha visitato la regione a primavera del 2022, si è trattato del primo viaggio in Cina del massimo funzionario delle Nazioni unite per i diritti umani in 17 anni, ma l’ex presidente cilena è stata immediatamente accusata di essersi prestata a un tour propagandistico della regione e di aver avallato la retorica di Pechino. Il governo dello Xinjiang le avrebbe assicurato che la rete di centri di formazione professionale era stata smantellata. Ma sono gli stessi documenti ufficiali della regione autonoma che mostrano come settori che richiedono lavoro intensivo come la produzione di cotone, di pomodori, del polisilicio per i pannelli solari e del vinile per le pavimentazioni, lavorano grazie ai trasferimenti forzati di forza lavoro in gran parte uigura. Questo tipo di politiche sono state implementate dal 2014, quando lo stesso Xi Jinping ha formalizzato l'idea di come bisognasse che le minoranze etniche lavorassero e studiassero la cultura cinese, anche perché era possibile collegare un'alta disoccupazione all'instabilità politica della regione.
Documenti ottenuti dall'Associated Press, dimostrerebbero inoltre come in una contea della regione autonoma, si registrerebbe il più alto tasso di incarcerazioni del mondo. A Konasheher sarebbero state arrestate oltre diecimila persone per reati che spaziano dalla pesante accusa di terrorismo a più vaghe imputazioni tradizionalmente utilizzate contro i dissidenti politici. E tra di loro hanno un punto in comune: sono tutte uigure. Significa che una persona ogni 25 è un detenuto, uiguro.
Per completare il quadro sulla repressione in atto, bisogna tenere a mente che nella parte meridionale della regione, soprattutto nei territori afferenti alle città di Hotan e Kashgar, la natalità è diminuita del 60 per cento tra il 2015 e il 2018. Statistiche più recenti descrivono un crollo del 24 per cento delle nascite nello Xinjiang contro la media del 4,2 registrata su tutto il territorio nazionale. Mentre nel resto del Paese si incentivano le nascite, nello Xinjiang l'installazione di spirali anticoncezionali nel corpo delle donne è cresciuto del 60 per cento dal 2014 al 2018 e, secondo un altro documento ottenuto da Zenz, nel 2019 nella sola città di Hotan oltre il 34 per cento delle donne in età fertile è stato oggetto di interventi di sterilizzazione. Tutto questo mentre vengono incentivati i matrimoni interrazziali e la popolazione han riceve incentivi per trasferirsi e metter su famiglia in Xinjiang. Se non siamo di fronte a un genocidio, come denunciano le organizzazioni per i diritti umani, si tratta almeno di una spregiudicata politica di sommersione etnica.