C’è un reportage sul magazine online con sede a Singapore The Initium che accende un faro su un tema che si fa sempre più pressante, ma che sono in pochi a verbalizzare. Sappiamo bene che negli ultimi dieci anni, lo scontro tra le prime due economie mondiali si è fatto via via più aspro con conseguente arroccamento dei governi, reciproche accuse e sospetti di attività di spionaggio che ricadono soprattutto sui cittadini che viaggiano da una nazione all’altra cercando di conoscere e studiare sul campo i propri competitor. Quello che fatichiamo a mettere a fuoco è che a fare le spese di questo clima da “nuova guerra fredda”, sono soprattutto professori, studenti e ricercatori universitari, le cui collaborazioni e i cui visti dipendono sempre di più dall’approvazione politica che ricevono le istituzioni di provenienza e i loro progetti di ricerca.
Un dato su tutti: nel biennio 2021-2022 gli statunitensi che hanno studiato presso istituzioni della Repubblica popolare sono appena 211 contro gli undicimila del biennio 2018-2019. Per non parlare delle sanzioni che a marzo del 2021 hanno colpito dieci individui e quattro istituzioni europee, tra cui il Mercator Institute for China Studies che, tra i tanti meriti, ha anche quello di tenere traccia degli investimenti cinesi in Europa. Nell’articolo sopracitato, diversi ricercatori europei raccontano come la paura di valicare la linea invisibile e mutevole di ciò che Pechino considera “argomento sensibile” sta condizionando i propri studi e, soprattutto, lo strumento principe della conoscenza di realtà così diverse e distanti: la ricerca sul campo. Professori di chiara fama, guadagnata attraverso informazioni di prima mano ottenute grazie ai rapporti costruiti durante lunghi anni di studio in terra cinese, sostengono che siamo ormai di fronte a un nuovo fenomeno, quello di “studiare la Repubblica popolare fuori dai confini della Repubblica popolare”. E questo, se in certi campi può portare vantaggi, non fa che ridurre l’empatia per la popolazione cinese e la comprensione delle mosse fatte dal suo governo.
Ah, a proposito di governo. Nelle lianghui (letteralmente le “due assemblee” o, secondo un anglicismo utilizzato con più frequenza, “sessioni”) appena conclusa, il Partito ha sancito, anche formalmente, il suo controllo totale sul governo. Lo spiega benissimo Michelangelo Cocco nella sua newsletter, quindi non mi dilungo ulteriormente, potete leggerlo qui:
Gli altri punti fondamentali del più importante appuntamento politico annuale della seconda economia mondiale che si è chiuso l’11 marzo scorso sono stati:
la cancellazione della tradizionale conferenza stampa di chiusura del premier
l’assenza di una strategia economica definita che provi a risollevare il paese dal pantano di amministrazioni pubbliche indebitate, colossi del settore immobiliare insolventi e disoccupazione galoppante in cui sta sprofondando. Al di la delle “nuove etichette per vecchie idee” ben sintetizzate da Merics (qui), l’impressione è che il Partito che ruota attorno a Xi Jinping abbia completamente abdicato al rispondere ai bisogni della classe media. Di conseguenza scricchiola la transizione dall’economia imperniata sulla manifattura a quella dei servizi
le spese militari e per il lavoro diplomatico in leggera crescita rispetto a quelle degli anni passati a fronte di una situazione socio-economica sempre più disastrosa mostrano l’importanza che la Cina di Xi Jinping attribuisce al suo posto nello scacchiere globale e alla volontà di rappresentare tutti quei paesi che ormai faticano a seguire la leadership degli Stati Uniti o la contestano apertamente (Le Grand Continent ha fatto un’infografica sulle reazioni al voto in Russia nel mondo che ne rappresenta plasticamente il peso). Non dimentichiamoci poi che nel 2027 cade il centenario dell’Esercito di liberazione popolare, e sappiamo che l’autocrate vorrà gonfiarsi il petto con i risultati ottenuti nella sua modernizzazione
l’enfasi sui meriti del fulcro di tutto (hexin) Xi Jinping e sull’impegno a seguire “il pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi nella nuova era”, l’assenza ancora una volta di figure che possano succedergli e il completo silenzio di voci altre all’interno del Partito sono infine sintomi e simboli di una Repubblica popolare sempre più paranoica e arroccata sulle proprie posizioni.