Il baricentro dell'indo-pacifico
Strumenti per capire l'importanza delle elezioni a Taiwan
Tutti gli occhi puntati su Taiwan. Anzi no, sulla Repubblica di Cina. O meglio, sugli effetti delle elezioni presidenziali sugli equilibri geopolitici mondiali. Tra Pechino e Taipei, prima di tutto. E poi tra Washington e Pechino, e le conseguenze sull’intera area dell’indopacifico. A complicare il quadro qui si producono il 60 per cento dei semiconduttori, ovvero i componenti essenziali per i device elettronici poi distribuiti in tutto il mondo, e addirittura il 90 per cento di quelli di alta qualità. Ma andiamo con ordine.
“L’isola è anomala”, scriveva Giorgio Manganelli nel 1988 (Cina e altri Orienti, Adelphi 2013). “Giuridicamente è quanto di più prossimo alla non esistenza sia possibile”. Ma allo stesso tempo, come spiega Stefano Pelaggi nell’introduzione de L’isola sospesa (Luiss University Press 2022), “è l’unico territorio conteso al mondo che ha piena sovranità all’interno dei propri confini, è membro della Word Trade Organization e del Forum di cooperazione economica Asia pacifico, ma è esclusa da tutte le grandi riunioni delle agenzie delle Nazioni Unite”. Ormai solo tredici stati, di cui il più importante è la Santa Sede, riconoscono l'amministrazione di Taipei invece che quella di Pechino. Il “consenso del 1992” implica che che esista una sola Cina: Pechino ancora considera l'isola una “provincia ribelle”, mentre Taipei che inizialmente descriveva la terraferma come “territorio della Repubblica cinese esterno all'area di Taiwan”, oggi si limita a sottolineare che l’isola non era parte del territorio cinese né quando è caduto l’impero nel 1911 né quando è stat fondata la Repubblica popolare nel 1949.
Di fatto Taiwan e Repubblica popolare hanno una tra le relazioni internazionali più complicate del mondo. L'isola fu posta sotto il controllo della Repubblica cinese di Chang Kai-shek quando il Giappone, che l’aveva colonizzata nel 1895, perse la seconda guerra mondiale e fu qui che il Generalissimo si rifugiò con le sue truppe solo quattro anni dopo, quando perse la guerra civile contro l'Esercito di liberazione di Mao Zedong. Sperava di riconquistare la terraferma con l'appoggio degli Stati Uniti, ma le cose andarono diversamente. Nel 1971 le Nazioni Unite trasferirono il seggio della Repubblica cinese, ovvero Taiwan, alla Repubblica popolare e da allora un numero sempre crescente di paesi ha riconosciuto quest'ultima a scapito della prima. Le “due Cine” nel frattempo hanno percorso cammini completamente separati.
I cinesi di Taiwan hanno mantenuto un legame con la cultura della Cina imperiale che non è stato spezzato da nessun Balzo in avanti o Rivoluzione culturale. L'esempio più evidente è la scrittura, molto più simile al cinese classico che a quella “semplificata” dalla Cina comunista per permettere l'alfabetizzazione del maggior numero di persone possibile. Forte di questa “superiorità” e non dovendosi confrontare con “le masse” della Cina continentale, a Taiwan hanno cominciato un processo di democratizzazione alla fine degli anni Ottanta: nel 1987 hanno abolito la legge marziale e nel 1996 hanno finalmente affrontato le prime votazioni per l’elezione diretta del presidente. Oggi l’isola è una delle democrazie più vive dell’estremo oriente, sicuramente quella che meglio tutela le libertà civili (permette ad esempio i matrimoni tra persone dello stesso sesso).
Nel frattempo l’“identità cinese” si è sempre più diluita in una più contemporanea e globalizzata “taiwanesità”. Senza entrare nei dettagli storici di una serie infinita di dominazioni coloniali (qui un bellissimo reportage del Financial Times, per chi vuole approfondire), fino al XVII secolo gli autoctoni erano esclusivamente austronesiani mentre oggi la popolazione dell’isola è per il 95 per cento composta da persone etnicamente cinesi. Il recente sforzo di costruire un’identità nazionale che rispetti le culture native e il progressivo allontanamento dalle generazioni nate e cresciute nella Cina continentale, ha fatto sì che ormai nessuno che abbia meno di trent'anni può immaginare un futuro alle dipendenze di Pechino.
“Abbiamo conosciuto la faccia più crudele della diplomazia internazionale. E il principio 'una sola Cina' è il mito fondativo della nostra agonia. Un'ipocrisia organizzata che semplicemente posticipa lo scontro militare e che nessuno ha avuto il coraggio di mettere in discussione per decenni”. mi diceva a fine 2016 Yi Yuan, professore di relazioni internazionali all'università Chengchi. Da allora, sono cambiate molte cose. I taiwanesi hanno assistito increduli alla fine dell’Hong Kong che conoscevano, le provocazioni militari cinesi si sono intensificate come pure quelle diplomatiche da parte degli Stati Uniti che, nonostante continuino ufficialmente a sostenere il principio di un’unica Cina, sono sempre più presenti nell’area a contenimento della seconda economia mondiale. Oggi nessuno crede più in una “riunificazione pacifica” e anzi, l’unica garanzia di pace sembra essere il mantenimento di questo difficile status quo. Il voto di domani è importante (per saperne di più leggete Michelangelo Cocco su Rassegna Cina - link in calce - e seguite Lorenzo Lamperti sui suoi canali social, che sta a Tapei), ma non quanto le reazioni delle due potenze che competono per disegnare il nuovo ordine mondiale.
sempre molto interessanti le cose che scrivi
(e documentate, e ben scelte)
sempre molti complimenti!