All’inizio dell’estate è sparito Qin Gang, ministro degli esteri nominato appena qualche mese prima. Poi è stato il turno di Li Yuchao e Liu Guangbin, rispettivamente il comandante e il vice comandante delle forze missilistiche dell’esercito che si occupano, tra le altre cose, di gestire l’arsenale nucleare cinese. E adesso Li Shangfu, ministro della difesa. Tra i primi a darne notizia, è stato l’ambasciatore statunitense in Giappone Rahm Emanuel, sfruttando un accattivante parallelo letterario con uno dei gialli più noti di Agatha Christie: Dieci piccoli indiani. E il mezzo che ha scelto è stato X, il compianto twitter, inaccessibile a gran parte della popolazione cinese. Strano no?
Come nei casi precedenti, Li Shangfu ha mancato diversi appuntamenti ufficiali, ci sono stati vaghi accenni a non meglio specificati problemi di salute e la portavoce del ministero degli esteri ha detto ai cronisti di non saperne nulla. Ma non sapeva nulla neppure di Qin Gang poco prima che la sua sostituzione venisse ufficialmente annunciata dal notiziario serale della tv di stato (circa 130 milioni di spettatori a puntata. Siamo nella terra dei grandi numeri, ricordate?) e che il suo nome e il suo curriculum venissero completamente cancellati dal sito ufficiale del ministero degli affari esteri. Nel frattempo giornalisti e diplomazie di tutto il mondo si erano lasciati andare a qualsiasi tipo di ipotesi. Tutt’ora sul tavolo.
Ed è questo il punto. L’informazione di Stato tende a dire poco e, soprattutto, a non dare spiegazioni. L’assenza di un ministro (o dei più alti vertici dell’esercito, non è questo il punto) viene comunicata contestualmente alla sua sostituzione. Poi, ma possono passare mesi, ci diranno che è sotto indagine (verosimilmente per corruzione) e che sarà presto processato (velocemente, e a porte chiuse). A quel punto è scontato che verrà condannato. In Cina i tribunali non perdono tempo: il 99,9 per cento degli imputati viene giudicato colpevole. Ma torniamo ai funzionari spariti. A Zhongnanhai, la città proibita della leadership comunista situata proprio accanto a quella imperiale, stanno forse cambiando gli equilibri di potere?
Da quello che sappiamo, Qin Gang e Li Shangfu sono uomini del presidente. O almeno lo sono stati fino a marzo scorso, quando gli sono stati assegnati gli incarichi di ministro degli esteri e della difesa. Il primo si è distinto nell’organizzazione dei viaggi di Xi Jinping e come esponente di una diplomazia più aggressiva, detta “dei lupi”; il secondo era sotto sanzioni statunitensi dal 2018 per aver ordinato un acquisto di armi russe. Possibile che in appena tre mesi abbiano rovinato la loro carriera? O è forse un modo per far capire a Xi Jinping che è finito il tempo dell’appoggio incondizionato da parte della leadership?
Un retroscena uscito sul Nikkei a firma di Katsuji Nakazawa, corrispondente dalla Cina per sette anni, racconta come al tradizionale ritiro estivo della leadership a Beidahe, località balneare nota per i suoi dieci chilometri di spiagge di sabbia fina a circa trecento chilometri da Pechino, una delegazione di anziani del partito capitanata da Zeng Qinghong, uno dei bracci destri del defunto ex presidente Jiang Zemin, avrebbe messo apertamente in guardia Xi Jinping sul pericolo concreto di perdere consenso a seguito dei recenti disordini economici e sociali. Secondo questa ricostruzione (riportata da quali fonti e con quali interessi non è dato sapere), Xi Jinping avrebbe scaricato la colpa sui tre leader che lo hanno preceduto Deng Xiaoping, Jiang Zemin e Hu Jintao, ovvero gli artefici delle riforme e delle aperture che hanno portato la Repubblica popolare a competere con gli Stati Uniti per il primato economico e l’egemonia mondiale.
Ora, che Xi Jinping si richiamasse direttamente alla figura di Mao Zedong non è un segreto. Ma se anche volesse cancellare con un colpo di spugna gli ultimi quarant’anni di storia cinese (che, ricordiamo, oltre a sollevare 700 milioni di cinesi dalla povertà hanno favorito il dilagare di corruzione e diseguaglianze) e il resto del partito non glielo consentisse, rimarrebbe un problema da risolvere. Chi mai potrebbe prendere il suo posto?
Dopo la morte di Mao Zedong, in Cina la transizione dei poteri è sempre stata gestita collettivamente, ma potrebbe facilmente tornare ad essere una guerra sotterranea senza esclusioni di colpi. Specialmente dopo tutte le modifiche introdotte da Xi Jinping per accentrare i poteri nelle sue mani. Anche se un manipolo di scaltri politici riuscisse a mettere all’angolo l’attuale timoniere, difficilmente sarà in grado di garantire una successione ordinata. E allora sarebbe il Partito a tremare. E con esso la Cina tutta. Per il momento, penseranno a Zhongnanhai, meglio non soffiare sul fuoco.