Né con gli huthi, né contro di loro
La crisi del mar Rosso è un'altra prova della fine dell'egemonia statunitense
Fa poche vittime e non attira l’attenzione del grande pubblico, ma il conflitto nel mar Rosso rischia di ridisegnare gli equilibri geopolitici più di qualsiasi altro fronte di guerra già aperto in questo scoppiettante inizio del 2024. Non è un caso che tra il 26 e il 27 gennaio, il consigliere per la sicurezza statunitense Jake Sullivan abbia passato circa dodici ore a provare a convincere il potente direttore della commissione affari esteri e ministro degli esteri (in sostituzione del suo successore Qin Gang epurato la scorsa estate) Wang Yi a esercitare la sua leva diplomatica sull’Iran (Teheran esporta il 90 per cento del suo petrolio in Cina) affinché quest’ultimo facesse lo stesso con i suoi alleati huthi per fermare gli attacchi sulle imbarcazioni mercantili.
Le pressioni cinesi su Teheran, secondo molti, ci sarebbero state. Ma non è chiaro per proteggere chi e con quali esiti. D’altronde, stando alle fonti iraniane di Reuters, Pechino ci aveva già provato. Ed erano stati gli stessi huthi a garantire il passaggio in sicurezza delle navi cinesi (e russe) lo scorso 19 gennaio in un’intervista al quotidiano di San Pietroburgo Izvestia.
Così ormai ogni giorno almeno una trentina di navi cargo che transitano nel Mar Rosso segnalano di aver parte dell’equipaggio cinese o un qualsivoglia legame con la Repubblica popolare per godere di una sorta di lasciapassare dagli attacchi delle milizie yemenite. Ma quest’escamotage non è certo garanzia di immunità. Il fatto che oltre il 90 per cento delle imbarcazioni che percorrono le rotte commerciali tra Cina e Europa debba ormai circumnavigare l’Africa allungando il viaggio di almeno una decina di giorni ne è forse la prova più evidente. La stessa Cosco, ossia la più grande azienda cinese di spedizioni marittime, aveva preso questa decisione già il 19 dicembre scorso, e le rassicurazioni degli huthi non gli hanno fatto cambiare idea.
Il passaggio attraverso il mar Rosso, è uno snodo della fondamentale della via della seta del XXI secolo su cui la Repubblica popolare di Xi Jinping punta parecchio. Le aziende cinesi hanno investito nella regione oltre 20 miliardi di dollari, secondo l’American Enterprise Institute, soprattutto in paesi come l’Egitto e l’Arabia Saudita. Inoltre, quasi il 40 per cento del petrolio importato da Pechino viene proprio dal medio oriente.
La Repubblica popolare quindi non può permettersi di ignorare il problema, ma certo non è disposta a schierarsi con gli Stati Uniti per risolverlo. Ne va della narrazione di paese garante del nuovo ordine multipolare che va costruendosi, soprattutto tra i paesi emergenti dove Washington sta perdendo presa. Pechino ha intenzione di cavalcare quest’onda per imporsi come alternativa credibile e, soprattutto, stabile alla democrazia americana.
Dall’improvviso ritiro delle truppe in Afghanistan nel 2021, ai più recenti tentennamenti nell’invio degli aiuti militari a Kiev passando per l’incapacità del presidente in carica di convincere il suo omologo israeliano a limitare il massacro dei civili a Gaza e con l’importante incognita delle prossime elezioni presidenziali, è evidente che Washington non è più in grado di dar lezioni di geopolitica a nessuno. Così Pechino torna alla strategia che meglio gli riesce: temporeggia. E, seduta sulla riva del mar Rosso, aspetta passare il cadavere del suo nemico.