Via dalla seta. Una timeline
Doveva esprimersi il parlamento. Invece l'ordine è già stato eseguito
Doveva avvenire tramite un “passaggio parlamentare”, ed è invece uno scoop del Corriere della Sera del sei dicembre a rivelarci che l’Italia è fuori dalla via della seta o meglio, dalla Belt and Road Initiative, come i colleghi stranieri ci suggeriscono di chiamarla per evitare di ammantare di fascino esotico l’aggressivo programma di investimenti in infrastrutture in giro per il mondo che Xi Jinping in persona ha lanciato a settembre 2013. Un ‘no comment’ è quello che si sente rispondere chi, come noi, cerca qualche dettaglio da palazzo Chigi o dalla Farnesina. Ad oggi sappiamo solo che
Dopo settimane di negoziati riservati e dopo alcune incomprensioni diplomatiche, l’Italia ha prodotto una nota verbale, l’ha corredata con promesse di amicizia strategica in grado di rilanciare i rapporti fra i due Stati, e l’ha consegnata a Pechino alle autorità del governo cinese. Tre giorni fa, senza comunicare nulla pubblicamente, come d’intesa con le autorità cinesi, Roma è uscita dopo quattro anni dalla Belt and Road Initiative, quel progetto faraonico e multimiliardario ideato da Xi Jinping che sedusse Giuseppe Conte e fece infuriare gli americani.
Abbiamo detto che l’economia cinese non se la passa troppo bene. La crisi del settore immobiliare trascina con sé quella dei governi regionali, a loro volta pesantemente indebitati con le banche locali. Ma anche le grandi banche nazionali, che in genere coprono quelle locali, stanno fronteggiando un’emergenza. Hanno prestato miliardi ai Paesi che hanno ospitato i progetti infrastrutturali della Belt and Road Initiative e ora, complice la regressione globale, rischiano di riempirsi di crediti deteriorati e di non avere la liquidità necessaria a coprire le banche di piccole e medie dimensioni. Lo stesso Xi Jinping oggi frena sugli investimenti all’estero, per non parlare dei cittadini cinesi che proprio non comprendono come in tempi di ristrettezze economiche si possa pensare di investire all’estero invece di elargire aiuti a pioggia in patria. È questa la cornice generale in cui si colloca il gran fermento del governo italiano sul tema.
I giornali nostrani danno per certa la disdetta del Memorandum of Understanding con la Cina sulla Via della Seta. Palazzo Chigi conferma. Eppure un annuncio ufficiale ancora non è stato fatto. Le diplomazie si muovono ormai da novembre 2022 quando la nostra premier e il presidente statunitense si sono incontrati a margine del G20 di Bali. Stando ai retroscena, in quell'occasione Joe Biden avrebbe chiesto a Giorgia Meloni di uscire dall'accordo e la capo del nostro governo avrebbe preso tempo per capire come sfruttare al meglio la situazione e non incorrere nelle ritorsioni economiche tipiche di Pechino. A maggio 2023, in occasione del G7 di Hiroshima, Meloni avrebbe chiesto (e ottenuto) un'ulteriore proroga.
A giugno la Cina ha mosso le sue pedine: c'è stata l'intervista dell'ambasciatore a Roma Jia Guide e la missione in Italia del responsabile delle relazioni internazionali del Partito comunista cinese Liu Jianchao. E alla fine del mese la nostra premier ha dichiarato in Senato che sarebbe stato il parlamento a decidere. Poi, a metà luglio, dal vertice internazionale della Nato a Vilnius, Meloni ha annunciato la sua visita a Washington a fine mese, e da Washington ha annunciato la sua visita a Pechino. In ognuno di questi annunci si sottintendeva che l'Italia si sarebbe ritirata dall'accordo ma che stava cercando una soluzione giusta per mantenere buoni rapporti con la Repubblica popolare.
All'inizio di settembre il ministro degli esteri Antonio Tajani si è recato in Cina e ha rispolverato il parternariato economico voluto da Silvio Berlusconi nel 2004: la bilancia commerciale con Pechino pende troppo a favore di quest'ultima, anche a fronte dell'essere l'unico dei paesi G7 ad aver firmato il Memorandum sulla Via della Seta. Dal 2019 infatti, anno dell’avvio della Nuova via della seta, la differenza fra esportazioni ed importazioni tra Italia e Cina è peggiorata per noi, passando da -19,4 miliardi di euro del 2020 a -41 miliardi del 2022.
Tajani, però, non ha pronunciato una parola definitiva sul memorandum. E ha annunciato importanti visite nei mesi a venire: oltre a quella della premier, quella della ministro del turismo, quella della ministro della ricerca e dell'università e quella del presidente Sergio Mattarella. Sempre a settembre, al G20 di Nuova Delhi in cui ha pesato l'assenza di Xi Jinping, Meloni ha firmato l'accordo per il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa che gli Stati Uniti hanno messo sul piatto per contrastare l'egemonia cinese sulla rotta marittima a sud del continente euroasiatico.
Nella stessa occasione, secondo i retroscena diffusi da palazzo Chigi, il premier cinese Li Qiang avrebbe provato ancora a convincerla a non uscire dall'accordo. Lei, sulla scia del lavoro di Tajani, avrebbe insistito sul partenariato economico. Ma, ancora, nessun annuncio ufficiale. Una decina di giorni più tardi, in un intervista alla Fox da New York dove si trovava per partecipare all’assemblea generale dell’Onu, il nostro ministro degli esteri si era lasciato sfuggire che Meloni aveva parlato con Pechino dell’uscita dell’Italia dalla via della seta. Subito dopo, forse immediatamente redarguito chissà da chi, aveva ribadito ai giornalisti presenti che nessuna decisione sarebbe stata presa senza sentire l’opinione del parlamento.
Pechino ha quindi ospitato il terzo forum della Belt and Road Initiative a metà ottobre, celebrando con i paesi amici i dieci anni dal lancio dell'iniziativa. L'Italia, fin'ora unica tra i paesi del G7 che non aveva mai mancato di inviare il capo del governo (Paolo Gentiloni nel 2017 e Giuseppe Conte nel 2019), viene rappresentata dal suo ambasciatore a Pechino Massimo Ambrosetti. Nel mese seguente, viaggiano, piuttosto alla chetichella, le ministre del turismo e della ricerca e dell'università. Della promessa visita della premier nessuna menzione. Si ribadisce che si sta lavorando invece per il viaggio del presidente Sergio Mattarella l’anno prossimo, in occasione dei 700 anni dalla morte di Marco Polo.
Poi, come un fulmine a ciel sereno, l’articolo sopracitato del Corriere che viene ripreso senza ulteriori dettagli, se non qualche conferma in più da “fonti vicine a palazzo Chigi”, dai mezzi di informazione di tutto il mondo. L’Italia, primo paese al mondo, è uscita dalla via della seta: l’abbiamo saputo in via ufficiosa e con tre giorni di ritardo. Nessuno ha pensato di dover spiegare cosa c’è scritto in quella nota verbale né tutte le promesse disattese: dalla visita della premier in Cina al passaggio parlamentare. Non è così che si cura il rapporto con la propria opinione pubblica. Non è così che ci si presenta in maniera credibile sui tavoli della diplomazia internazionale. E soprattutto non è così che si gettano le basi per un rapporto proficuo con la seconda economia mondiale.
Stando a quanto si legge in calce al memorandum of understanding firmato a marzo del 2019, l'accordo “rimarrà valido per un periodo di cinque anni e sarà automaticamente prorogato di cinque anni in cinque anni, salvo che una Parte vi ponga termine dandone un preavviso scritto di almeno tre mesi all’altra Parte”. Entro il 23 dicembre di quest'anno, dunque. Ci sono ancora un paio di settimane scarse per ufficializzare la decisione e vestirla delle attenzioni che merita per la sua importanza geopolitica. Ne va della credibilità dell’Italia in uno dei più complicati momenti della storia recente. Aspettiamo fiduciosi