Senza plenum
Il viaggio di Xi Jinping negli Usa ha legittimato il rinvio sine die dell'appuntamento economico più importante del quinquennio
Si dice che Xi Jinping e i suoi più stretti collaboratori si siano immensamente goduti la serie tv House of Cards, almeno nelle sue prime due stagioni trasmesse in streaming dal cinese Sohu (24,5 milioni di visualizzazioni, in gran parte provenienti da impiegati governativi residenti a Pechino secondo le statistiche rilasciate dallo stesso portale). All’epoca il presidente si era appena insediato, uscendo vincitore da una ferocissima lotta di potere all’interno del Partito. Oggi, a dieci anni di distanza, Xi ha consolidato il suo ruolo eliminando qualsiasi avversario o discussione: chi poteva contrastarlo è stato messo in condizioni di tacere o se ne è andato all'estero. E a differenza di quanto accaduto negli ultimi trent'anni, non si vede nessun possibile successore all'orizzonte.
Xi Jinping ormai è il partito, il fulcro (hexin) intorno a cui tutto gira. Il 'xiismo', è entrato in Costituzione accanto al maoismo. Questo è accaduto perché i quadri lo hanno permesso, certo. Ma se c'era chi voleva l'uomo forte, c'era anche chi non avrebbe mai voluto arrivare a questo punto: sono più di dieci anni che Xi Jinping è all'apice del potere, e le cose non vanno troppo bene e cresce la preoccupazione per la stabilità interna. È l'ossessione di ogni classe dirigente cinese dalla notte dei tempi. “Una scintilla, diceva Mao, può incendiare un'intera prateria”. E qui si tratta di governare, in un complicatissimo frangente storico, un territorio grossomodo grande quanto l'Europa, con una popolazione che è tre volte tanto. E le scintille non mancano.
La Cina sta affrontando il periodo più duro degli ultimi quarant'anni. Un giovane su cinque è senza lavoro, il mercato immobiliare è crollato (e vale circa il 30 per cento del pil), gli sviluppatori immobiliari stanno fallendo uno dopo l'altro, la crescita economica ha rallentato fino quasi a frenare, e la popolazione invecchia: oltre il 18 per cento dei cinesi è over 60 e a niente sono servite le politiche per incentivare la natalità varate negli ultimi anni. I giovani posticipano matrimoni e figli. E soffrono sempre di più la precarietà che gli riserva il presente e l'incertezza del futuro.
È in questo contesto che va inserito l’incontro tra Joe Biden e Xi Jinping a San Francisco: cercare di ricucire i rapporti dopo cinque anni di guerra commerciale ed evitare che i contrasti tra le due super potenze in un contesto internazionale sempre più incerto portino a inasprire la situazione economica o a inattese escalation militari. I due leader si sono trattati con rispetto: entrambi volevano ricucire i rapporti che, dopo la mai definitivamente chiarita vicenda del pallone spia cinese in territorio statunitense, avevano raggiunto il punto più basso di sempre.
A fronte di risultati ampiamente anticipati (ripristino delle comunicazioni militari di alto livello, contrasto al traffico di fentanyl, regolamentazione dell’uso dell’intelligenza artificiale in ambito militare e ripresa dei colloqui sulle politiche energetiche), il vertice non ha però permesso di risolvere le divergenze fondamentali tra i due paesi. Al termine dell’incontro Biden ha detto di considerare ancora il suo collega cinese un “dittatore” e non è stato diramato nessun comunicato congiunto, ma due resoconti separati che vale la pena confrontare.
Se per Joe Biden è chiaro che Stati Uniti e Repubblica popolare “sono in concorrenza”, per Xi Jinping “la competizione tra le maggiori potenze non potrà risolvere i problemi che stanno affrontando la Cina, l’America e il resto del mondo”; se gli Stati Uniti sottolineano “l’impegno a difendere gli alleati dell’area indo-pacifica”, la Repubblica popolare denuncia che non dovrebbero avere “nessun piano per contenere la Cina”. Mentre Biden parla di “continuare a fare tutto il possibile affinché le tecnologie statunitensi non vengano utilizzate per indebolire la sicurezza nazionale”, per Xi si tratta di “soffocare la scienza e la tecnologia cinese per limitare il perseguimento dell’alta qualità e privare il popolo cinese del suo diritto allo sviluppo”.
Se Biden affronta la questione taiwanese assicurando che le amministrazioni americane non hanno mai cambiato idea sulla “politica su una sola Cina” anche se chiedono alla Repubblica popolare di “limitare le attività militare dentro e intorno a Taiwan”, per Xi gli Stati Uniti dovrebbero “trasformare il loro impegno a non sostenere l’indipendenza di Taiwan in azioni concrete come smettere di armarla e assecondare la riunificazione pacifica della Cina, perché tanto una riunificazione è inevitabile”. Insomma, nessun passo avanti sui temi che davvero infiammano le diplomazie delle due superpotenze.
Da un punto di vista di politica interna cinese, invece, qualcosa di concreto è successo, anche se ancora non è possibile definirne i contorni. Il viaggio negli Stati Uniti del presidente Xi Jinping ha di fatto congelato a data da destinarsi la terza riunione plenaria del Comitato centrale del Partito comunista, il cosiddetto terzo plenum. Si tratta dell’appuntamento politico più importante che i poco più di trecento membri di uno degli organi più importanti del Partito si trovano ad affrontare tra un Congresso e l’altro, cioè ogni cinque anni. In genere, infatti, è durante il terzo plenum che vengono annunciati i cambiamenti delle politiche economiche del Paese.
Le date non sono ancora state annunciate, e al più presto si terrà a dicembre. Questo non avveniva dal 1978 quando, a chiusura della Rivoluzione culturale, i leader comunisti trovarono l’accordo sulle riforme economiche che hanno portato la Repubblica popolare a diventare la seconda economia mondiale. Il ritardo per altro pesa anche sulla decisione politica, mai spiegata fino in fondo, di esautorare l’ex ministro degli esteri Qin Gang e l’ex ministro della difesa Li Shangfu dai loro incarichi. Secondo la Costituzione del Partito infatti, nessun provvedimento disciplinare definitivo che riguardi un membro del Comitato centrale – ad esempio l’espulsione dal Partito – può essere presa al di fuori dell’annuale plenum.
Un’analista politico che ha parlato in condizione di anonimato al quotidiano di Hong Kong South China Morning Post, ha spiegato che questo ritardo potrebbe essere causato da divergenze su come affrontare i gravi problemi di politica interna e internazionale che Pechino si trova ad affrontare. Quest’anno inoltre, poiché ricorre il 45esimo anniversario delle “riforme e aperture”, il terzo plenum sarebbe tenuto a riassumere in un documento quello che quest’esperienza ha portato al paese e a suggerire le strategie che si intendono perseguire nel prossimo futuro. Secondo la stessa fonte, si rischia che il plenum in questione venga rimandato fino all’annuale appuntamento legislativo delle due sessioni, che in genere si tiene ogni marzo. Sarebbe la prima volta.