Pubblichiamo con ritardo, così non possiamo fare a meno di aggiungere in testa la notizia di oggi. La tradizionale conferenza stampa del premier Li Qiang in chiusura delle due assemblee non si farà. L’appuntamento, seppur orchestrato in anticipo, era uno dei pochi momenti in cui la stampa locale e straniera poteva avere un confronto diretto con la leadership. Era stato introdotto nel 1988 e dal 1993 non era mai saltato. Secondo diversi analisti questa decisione è destinata a ripetersi negli anni a venire. Un motivo in più per interrogarsi sulle decisioni economiche e politiche della Repubblica popolare e sui nostri rapporti con la seconda economia mondiale. Qui cerchiamo di fare il punto sulle auto elettriche. Buona lettura
Byd, Build your dream. Forse l'abbiamo sentita nominare per la prima volta all'inizio di quest'anno, quando l'azienda cinese ha battuto Tesla per numero di auto elettriche vendute nel mondo. Nemmeno un mese prima aveva annunciato l'apertura di una fabbrica in Ungheria, e un paio di mesi più tardi ha comunicato di essere stata contattata dal governo italiano per l'apertura del suo secondo stabilimento in Europa (prima vediamo come va in Ungheria, avrebbero risposto). Parole che il ministro per le imprese e il made in Italy Adolfo Urso non smentisce. E anzi, un paio di giorni più tardi comunica che, oltre che con Tesla, abbiamo trattative in corso con tre tra le principali aziende cinesi che producono auto elettriche.
Eppure a settembre scorso la Commissione europea ha aperto un'indagine formale sulle sovvenzioni statali delle auto elettriche prodotte in Cina vendute sul mercato europeo. E non sono poche. Secondo Bruxelles, i marchi cinesi come Byd, Nio e Xpeng avrebbero già conquistato l'8 per cento del mercato europeo, rispetto al 4 per cento del 2021, e potrebbero arrivare al 15 per cento l’anno prossimo. Lo stesso rapporto stima che i veicoli importati costano in media il 20 per cento in meno rispetto a quelli assemblati negli stabilimenti europei. C’è poi tutta la questione legata alla raccolta dati che possono essere raccolti, studiati e utilizzati dalle aziende madri (qui una buona disamina, da cui abbaimo preso anche l’immagine di copertina). Non sarebbe il caso di affrontare il problema prima che ci scoppi tra le mani?
La sola Byd ha come obiettivo aziendale quello di vendere 800mila veicoli elettrici all'anno in Europa entro il 2030. La rapida ascesa dell’azienda, quotata sulla borsa di Hong Kong, è emblematica della pianificazione economica di Pechino che nel 2015 ha lanciato Made in China 2025 il piano per rendersi indipendente dalle importazioni in tutta una serie di settori strategici, tra cui le auto elettriche. Già un anno prima, gli interessi del governo si erano intrecciati con quelli di Wang Chanfu, un ricercatore universitario che nel 1995 aveva rassegnato le dimissioni per fondare, grazie a 2,5 milioni di yuan chiesti in prestito ad amici e parenti, quella che all’epoca era nota solo come Biyadi, un’azienda che produceva batterie ricaricabili per cellulari. Nel 2014 il consiglio di stato, ovvero il braccio esecutivo dell’Assemblea nazionale del popolo o per dirla con parole nostre il governo della Repubblica popolare, aveva pubblicato un vademecum in 30 punti per promuovere la produzione di veicoli elettrici. In un’intervista del 2020 Wang rivelerà che circa una ventina di quei punti li aveva suggeriti direttamente Byd. Ma andiamo con ordine.
L’azienda cresce velocemente, così come l’utilizzo dei dispositivi elettronici. Ma all’inizio degli anni duemila Wang ha una visione fondamentale: le sue batterie saranno l’alternativa al motore a scoppio, ma per farlo dovrà imparare a costruire automobili. Ci mette cinque anni: nel 2008 passa alla produzione di auto elettriche e in un moto di entusiasmo afferma che saranno i primi produttori di veicoli al mondo entro il 2025. Convince persino l’investitore per eccellenza Warren Buffett che compra il dieci per cento delle sue azioni: circa 230 milioni di euro che, tredici anni più tardi, si sarebbero trasformati in 6 miliardi. Nel frattempo, grazie ai sussidi statali, a salari molto bassi (qui un report del 2011 di China Labor Watch), a margini di guadagno contenuti (solo il 12 per cento di quelli che fa Tesla su ogni macchina, secondo un think tank cinese) e alla capacità di costruirsi da sola le batterie al litio (che ammontano a circa il 40 per cento del valore di un auto elettrica), i prezzi dei veicoli elettrici BYD sono scesi al punto di competere con quelli delle auto a combustione.
Negli stessi anni, poi, i cittadini cinesi sono diventati sempre più preoccupati dall’inquinamento e moltissime grandi città hanno cominciato a limitare la circolazione dei mezzi a benzina. Il risultato di tutti questi fattori combinati è stato che negli ultimi quattro anni in Cina è esploso il mercato delle auto elettriche (ormai oltre il 60 per cento del mercato globale) e Byd, che nel frattempo era diventato l’acronimo di build your dreams, ne è diventato leader. E ora ha intenzione di espandersi all’estero, con una strategia di integrazione verticale che deve aver appreso direttamente dalla svolta autarchica del governo centrale retto da Xi Jinping: dalle miniere di litio in Africa o Sudamerica per le batterie, alle fabbriche dove le auto vengono assemblate, Byd costruisce, possiede e controlla ogni passaggio della catena di produzione, persino le navi container che trasportano i veicoli all’estero. Tesla non può competere su questo. Tanto è vero che persino alcune vetture che produce negli stabilimenti di Berlino sono alimentate dalle batterie Byd. E quindi arriviamo al punto: è davvero possibile smarcarsi dalla tecnologia e dalle multinazionali cinesi?
Come spiega bene un recente articolo del Financial Times, le esportazioni della Repubblica popolare verso i paesi che hanno aderito alla Belt and Road Initiative hanno superato quelle verso Stati Uniti, Unione europea e Giappone. Questo non significa che Pechino li preferisce (prova ne é che le aziende cinesi hanno trovato diversi modi per aggirare i dazi imposti da Ue e Usa) ma che sta costruendosi un’alternativa all’attuale architettura economica mondiale. L’Unione europea lo sta facendo?